San Valentino di Paolo e Francesca: fu vero amore?
San Valentino di Paolo e Francesca: fu vero amore?
T.S.Eliot (1888 –1965), gigante della letteratura del XIX secolo, Premio Nobel nel 1948 quando il Nobel era riservato solo ai grandi e non, come oggi, anche a tanti quaquaraquà segnalati da accademie compiacenti, è stato uno dei più grandi interpreti di Dante. Americano di cultura british (più british lui di tanti british doc), studiò per anni l’italiano per comprendere a fondo l’enormità della Divina Commedia. Concluse le sue ricerche sentenziando clamorosamente la netta superiorità di Dante rispetto a Shakespeare, perché è ben vero – scrisse – che entrambi ci rappresentano l’intero spettro della realtà umana, ma mentre Shakespeare lo fa in modo orizzontale, Dante risolve la materia in senso verticale. Dietro il pronunciamento di Eliot c’è una scienza enorme: la “verticalità” di cui ci parla il maestro anglosassone rappresenta il percorso anagogico (cioè ascendente) Inferno-Purgatorio-Paradiso, il che rappresenta una soluzione del vivere, non solo una sua mera rappresentazione. Shakespeare, teatrante, rappresenta; Dante, poeta massimo, rappresenta e risolve.

Dante, dunque uber alles, per dirla alla tedesca: nessuno più grande di lui, nemmeno il Goethe, che eleva ai vertici massimi la sola dimensione ristretta della cultura germanica; Dante eleva ai vertici assoluti la cultura universale. Ma in cosa consiste, nel profondo, l’universalità di Dante? É molto semplice: la Divina Commedia è il Poema della Cristianità, cioè dell’unica cultura dove l’assoluta uguaglianza di ogni essere umano di fronte a Dio è affermata senza ombra alcuna di ambiguità: nel Cristianesimo non ci sono Eletti, Fedeli, Nobili, Ricchi, Compagni e Camerati. Non a caso si parla dell’unico –esimo in un mare di –ismi, tanto che Eliot, dopo la sua celebre conversione, ebbe a dire che «se crolla il Cristianesimo, prepariamoci a secoli di barbarie». Orbene, tutto questo per dire che cosa? Per dire che la verticalità con cui si perfeziona la Divina Commedia è un percorso sapienziale, un autentico viaggio iniziatico, dove l’Inferno è la prima tappa, cioè l’Opera al nero. Si tratta di un esercizio con cui si vuole risvegliare le coscienze sbattendo in faccia all’osservatore quelle verità scomode che ci si ostina a non voler vedere o a non volere affrontare. Per capire al meglio il concetto, ecco un esempio.

Sarà senz’altro capitato a tutti di avere un incubo particolarmente angoscioso: macchiati di una colpa assoluta, l’intensità del viaggio onirico si risolve in un risveglio improvviso e sofferto. É quello uno dei momenti in cui si ringrazia Dio: per fortuna era soltanto un sogno! Accade, poi, di frequente che di Dio ci si scordi ben presto, ma questo è un altro discorso; ciò che qui importa è l’esperienza di quell’angoscia profonda. Ebbene, ogni qual volta ci capita una notte del genere, non facciamo altro che vivere un’esperienza di “Opera al Nero”: una discesa agli inferi e ritorno. Si tratta di uno dei massimi insegnamenti sapienziali, perché dopo aver vissuto il peso di una colpa insostenibile, noi ne diveniamo miracolosamente immuni: se il Male lo si conosce per davvero, lo si eviterà per sempre. Ecco, l’Inferno di Dante ha proprio questo preciso significato sapienziale. Ma la Divina Commedia non regala ammaestramenti alla maniera con cui si imboccano gli infanti, Dante non dispensa perle ai porci, per cui l’Inferno si rivela all’esegeta capace come un percorso disseminato di trabocchetti fatali. Una di queste trappole è giusto rappresentata dal Canto V, quello della figura celeberrima di Francesca da Rimini. Ben prima della critica romantica, si dimostra, infatti, che Francesca ha ingannato il mondo con quel suo pronunciare per ben tre volte di fila la parola “Amore”. Il problema è che siamo noi lettori, non la figura virtuale del Dante-personaggio, ad essere chiamati a distinguere. È il lettore, non il Dante-personaggio, ad essere messo continuamente alla prova dall’impressionante arte dell’ambiguità poetica del Dante-autore. Insomma, a volerla dire tutta, la differenza tra noi e il Dante-personaggio è che lui ha il lusso di avere accanto a sé addirittura Virgilio nel ruolo di guida sapienziale, mentre a noi hanno dato solo professori…

Allora, ragioniamo: di quale Amore si sta trattando con Paolo e Francesca, qui, nell’Inferno? Sappiamo che sarà solo con Beatrice che il tema dell’Amore troverà perfezionamento. Dante lo fa ben capire già nel Canto II, all’atto della presentazione della figura amata:
Io son Beatrice, che ti faccio andare,/
vegno dal loco ove tornar disìo,/
Amor mi mosse, che mi fa parlare/,
Si vede qui, nel desiderio dell’anima di tornare nelle altezze da cui è discesa, che l’ispirazione della Commedia è tutta neoplatonica. Ma è giusto con Francesca da Rimini che il tema greco dell’Eros trova massima concretezza nella Divina Commedia attraverso la condanna dell’Amore fallace, cioè dell’Amore inteso in senso esclusivamente carnale. Dante, infatti, si premura subito di precisare che in quel luogo «enno puniti i peccator carnali». Sia chiaro, però: ciò non significa affatto che Dante sia nemico della carnalità, perché il poeta precisa pure che il carattere tipico dei Lussuriosi (coloro che «la ragion sommettono al talento») è il permettere che la Ragione venga schiacciata dal piacere corporale. Il punto è proprio questo: per Dante, ciascuno di noi – sia maschi che femmine – deve essere sempre presente a sé stesso: in nessun istante, mai, la nostra ragione deve trovarsi schiava dei sensi “perdendo la testa”… Il celebre motto di Oscar Wilde, «resisto a tutto, meno che alle tentazioni», è la classica indicazione di un cattivo maestro.

Paolo e Francesca, dunque, rappresentano i classici giovani che scambiano il sesso per l’Amore: presi dalla tempesta della passione, finiscono per divenirne schiavi cadendo nel baratro di una vera dipendenza. C’è un passo decisivo nella testimonianza resa da Francesca: «Quel giorno più non vi leggemmo avante». La fanciulla fa un chiaro riferimento al libro “galeotto” che lei e Paolo stavano leggendo, ma la loro storia (o leggenda che sia) non si narra così: i due amanti non subirono l’uccisione nel corso della loro prima occasione licenziosa. La verità è che da quel giorno in poi lei e Paolo avevano trovato qualcosa di più dilettevole da fare che non il portare a compimento un corso di letteratura… Quando mai, in effetti, Dante ci parla di spiriti “innamorati”? Francesca non aggiunge forse che «soli eravamo e sanza alcun sospetto»? Ebbene, due innamorati, invece, “sospettano”, eccome: non vedono l’ora di trovarsi uno nelle braccia dell’altro! Ciò che legò Paolo e Francesca fu, quindi, soltanto un’occasione, ma da quegli effetti i due giovani non ebbero la forza di liberarsi più. Qualora il lettore volesse comunque ostinarsi a preferire il tema dell’Amore invocando le ragioni di una pena più lieve, poiché scontata eternamente assieme dalla coppia di dannati, si consideri allora, una volta per tutte, l’enormità d’una sentenza che costringerebbe due innamorati non soltanto all’eterno scempio di sé compiuto dai terribili colpi di frusta inferti dalla «bufera infernal», ma pure all’obbligo reciproco di assistere allo strazio, altrettanto eterno, che si fa dell’oggetto del proprio amore: assolutamente terribile; assolutamente ingiusto, se davvero di Amore si trattasse…

Così, se Paolo è il personaggio passivo, colui che subisce l’attacco della tentazione cedendo per primo alla lusinga dei sensi e tace ora, piangendo, nell’Inferno tutto il proprio strazio, Francesca, assoluta protagonista del canto, si rivela nelle vesti di una grande allegoria: Francesca, personificazione della Lussuria, è una Sirena che tiene ancora incatenata a sé l’incauta preda. La scena è sconcertante: solo per i due cognati – pur privi come sono d’ogni Speranza – la bufera infernale tace per miracolo, eppure soltanto lei, Francesca, mostra di gustare – fisicamente – quei pochi minuti di pace preziosa: Paolo piange. Soltanto lei gode, ringrazia e parla: Paolo piange. Lui non può far altro: Paolo piange. Ormai è troppo tardi per il giovane incauto, anche solo per accorgersi di qualche minuto di quiete del tutto insperabile. Nel momento preciso in cui Dante si avvede di tutto ciò, gli appare il volto autentico, mostruoso, della Sirena. Ed è così che cade «come corpo morto cade».
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